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Indagine Ismea, maiscoltura poco redditizia e fortemente legata a contributi Pac
Sono diversi anni che la filiera maidicola italiana sta vivendo una situazione di crisi. Il tasso di approvvigionamento è drasticamente crollato a partire dal 2000, sono aumentate le importazioni, mentre rese e superfici coltivate si sono ridotte. Il quadro ha spinto i soggetti della catena di valore a promuovere il rilancio del comparto, si pensi ad esempio all’adozione dell’Accordo quadro per il Mais da granella. Ismea ha condotto un’indagine sui costi di produzione del mais nelle regioni in cui si concentra l’attività che riflette lo stato della maiscoltura italiana. L’attività è risultata poco redditiva e legata ai contributi diretti della Pac.
Negli ultimi otto anni indice costi lievitato di oltre 6%
All’inizio del nuovo millennio il tasso di approvvigionamento del mais in Italia era vicino al 100%. Negli anni successivi è progressivamente sceso fino ad arrivare al 50% nel 2019. L’Italia è diventata sempre più dipendente dall’estero per soddisfare il suo fabbisogno: sempre in questo periodo le importazioni sono passate da poco più di 500 mila a 6,4 milioni di tonnellate. La produzione domestica è infatti scesa nettamente, da 10 a 6,2 milioni di tonnellate, con l’erosione delle superfici coltivate, passate da 1,06 milioni a 629 mila ettari. Alla base della crisi del settore ci sono fattori produttivi ed economici, dalla variabilità dei prezzi alla presenza di micotossine, un elemento, quest’ultimo, diventato sempre più preoccupante per via dei cambiamenti climatici e che si riflette sui costi di produzione. Tra il 2011 e il 2019 l’indice costi è aumentato del 6,4% mentre quello dei prezzi si è contratto del 23,7%. Da questa differenza discende la scarsa redditività della maiscoltura, un dato coerente con le conclusioni della ricerca.
A fronte di questo scenario si è resa sempre più chiara la necessità di stabilizzare i redditi. La Politica agricola comune ha cercato di farvi fronte e anche la filiera si è mossa per raggiungere lo stesso obiettivo con l’incentivazione dei contratti di filiera mediante l’Accordo quadro promosso da Assalzoo. Lo stesso ministero delle Politiche agricole ha stabilito un incentivo fino a 100 €/ha a favore di chi coltiverà mais sulla base dei contratti di filiera di durata almeno triennale. Lo stesso Mipaaf ha messo a punto il Piano nazionale di settore allo scopo ultimo di incrementare il tasso di autoapprovvigionamento di mais.
Solo otto aziende con redditività positiva
In Italia sono cinque le regioni in cui si concentra la maiscoltura: Veneto, con il 25,8% del totale delle superfici nazionali, Lombardia (22,8%), Piemonte (20,8%), Emilia-Romagna (10,7%) e Friuli-Venezia Giulia (9,1%). Da qui arrivano le trenta aziende coinvolte da Ismea nella sua analisi (l’anno di riferimento è il 2019). I dati emersi sono variabili da un areale all’altro. La resa a ettaro è compresa tra 8,2 t/ha e 13,9 t/ha, variabile soprattutto in base alle pratiche agronomiche di concimazione e irrigazione. I prezzi di vendita sono invece risultati più omogenei, con un valore medio di 174,53 €/t. Le differenze sono legate a particolarità delle filiere (ad esempio il mais biologico prodotto da un’azienda lombarda). Sul fronte ricavi da produzione di granella, escludendo i contributi Pac, si varia da minimo 1.586 €/ha in Emilia-Romagna a massimo 2.646 €/ha in Lombardia (proprio nell’azienda biologica); il valore medio dell’intero campione si attesta a 2.061 €/ha. I costi variabili sono compresi tra 1.015 €/ha e 2.032 €/ha; la voce principale è rappresentata dai costi delle lavorazioni conto terzi, dai servizi di essiccazione e stoccaggio, dall’acquisto di concimi e sementi. I costi fissi, invece, sono compresi tra 371 e 1.235 €/ha, a seconda di superficie aziendale in proprietà e struttura del parco macchine aziendale. Pesano soprattutto gli ammortamenti, seguiti da contributi previdenziali, affitti, servizi amministrativi e assistenza fiscale, imposte e tasse.
Il reddito operativo medio emerso dall’indagine oscilla da un minimo di -776,37 €/ha a un massimo di +477,10 €/ha. Considerando i contributi Pac lo scenario cambia: il valore minimo si attesta in media a -401,07 €/ha ed il valore massimo a +844,89 €/ha. Sulle trenta aziende coinvolte ventidue hanno evidenziato una redditività negativa in assenza di pagamenti diretti. Senza i contributi Pac, la maiscoltura sarebbe dunque un’attività poco sostenibile dal punto di vista economico: “il sostegno pubblico, nato come integrazione al reddito, sta diventando una componente fondamentale del reddito”, conclude Ismea.
L’unica strada per conseguire un buon reddito è provare a incrementare le rese con investimenti efficaci e ottimizzazione di costi. Lo confermano alcuni dati. Spesso i parchi macchine delle aziende sono sovradimensionati rispetto alle necessità, comportando un aumento dei costi fissi. Efficace, invece, il ricorso al contoterzismo grazie al quale si riesce a ottimizzare la gestione economica generale dell’attività produttiva. Tra le varie regioni i risultati migliori sono stati registrati in Friuli-Venezia Giulia, soprattutto grazie alle maggiori rese unitarie (12,4 t/ha), e in Emilia-Romagna, con una buona redditività grazie al contenimento di costi variabili e fissi. All’opposto il Piemonte, dove solo un’azienda su sei ha mostrato risultati economici positivi.
Foto: Pixabay
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